MIGRAZIONI
di Gianluca Gatta
Il termine “migrazione” è generalmente associato a una serie complessa di fenomeni che riguardano il rapporto tra gli organismi viventi e l’ambiente. Questo campo di applicazione estremamente generale ci rivela il suo carattere strutturale. Migrano le piante, gli animali e, tra questi, gli esseri umani. Da un punto di vista storico, però, si rileva come nell’ambito delle mobilità umane le migrazioni siano spesso oggetto di “trattamento” politico, tecnico, discorsivo. Da fenomeno strutturale dell’umanità, a seconda delle epoche storiche e delle congiunture politico-economiche, le migrazioni sono descritte come eccezione, anomalia, “problema da risolvere”.
In particolare, con l’emergere degli stati-nazione e, quindi, dell’identificazione tra appartenenza politica e territorio, e con il conseguente proliferare dei confini, le mobilità umane sono sempre più divenute una questione politica rilevante, misura della salute dei sistemi economici nazionali e specchio della tenuta di quelli politici. Fenomeno da favorire e/o ostacolare, comunque da “gestire”, la storia delle migrazioni contemporanee è puntellata di operazioni politiche che hanno provato a sfruttarla, metterla a regime, indirizzarla. Utilità economica e pericolosità socio-politica accompagnano spesso i giudizi sul fenomeno migratorio.
Le migrazioni sono anche un ottimo punto focale da cui leggere gli squilibri sistemici globali. I rapporti di potere tra paesi di emigrazione e paesi d’immigrazione sono evidenziati dalle politiche migratorie, terreno in cui si contrappongono, da un lato, i paesi che hanno il potere di aprire o chiudere i canali migratori e, dall’altro, i paesi che vivono le “partenze” dei propri cittadini come sintomo di squilibri interni e come fonte di reddito necessaria ma allo stesso tempo problematica da gestire.
Le mobilità umane, inoltre, non hanno luogo in uno spazio astratto e polarizzato dove ricchezza e povertà determinano gli spostamenti. Bensì, esistono particolari canali migratori che legano due o più paesi per svariati motivi: legami coloniali, pregressi accordi bilaterali di reclutamento di manodopera straniera, presenze militari, delocalizzazione delle imprese, e così via. Fattori che contribuiscono al configurarsi di spazi migratori transnazionali che vedono circolare al loro interno persone, capitali, beni, prodotti culturali, immaginari.
Esiste poi il fenomeno di chi è costretto a lasciare il proprio paese in seguito a turbolenze politiche, persecuzioni individuali o di gruppo, conflitti, guerre, disastri ambientali. Fenomeni che interessano prevalentemente le aree del sud del mondo e, solo in misura limitata – nonostante il clamore mediatico prodotto intorno al fenomeno – i paesi del nord.
Negli ultimi anni, con la crisi economica e l’espandersi dei conflitti, le migrazioni stanno diventando sempre più “turbolente”, difficili da inquadrare, anche come conseguenza della (parziale) chiusura, militarizzazione ed esternalizzazione dei confini delle aree del pianeta scelte dai migranti come meta del proprio progetto migratorio.
Ma, al di là dei fattori strutturali così genericamente delineati, non si può tralasciare di guardare alla migrazione anche come esperienza soggettiva che mette in gioco affetti, memorie, geografie, lingue, relazioni, un’esperienza che spesso è restia a farsi incasellare nei tentativi istituzionali di classificazione delle “tipologie” di migrazione (economica, forzata, ambientale). La migrazione è una di quelle esperienze di vita che – come la nascita e la morte – impongono agli individui e ai nuclei famigliari una radicale riconfigurazione di sé e dell’ambiente circostante, l’individuazione di nuovi centri simbolici a cui ricondursi ogni volta che ci si sposta, un appaesamento che segue lo spaesamento. Ciò che avviene alle persone con l’esperienza migratoria è l’esercizio della propria capacità di agire nel plasmare uno spazio riconoscibile, l’esercizio dell’adattamento di sé a questo nuovo spazio transnazionale in cui convivono frammenti del mondo che ci si è lasciati alle spalle – con la promessa di un qualche ritorno (non solo fisico ma anche temporale, relazionale, immaginario) – e pezzi del nuovo mondo faticosamente appresi, decodificati, fatti propri, anche con l’aiuto dei contesti comunitari che ammortizzano l’attrito con il nuovo ambiente.
Questa messa a nudo dei soggetti che fanno esperienza della mobilità è in realtà una forma amplificata, senza mezzi termini e resa d’un tratto visibile, di ciò che tutti gli esseri umani sperimentano nel rapportarsi all’ambiente esterno umanizzato, politicizzato, attraversato da rapporti di potere, disuguaglianze, solidarietà e conflitti. La migrazione non fa altro che straniare e rendere quindi osservabili questi processi che generalmente funzionano in maniera invisibile, sono dati per scontati e sono resi opachi dalle identificazioni culturali che nel luogo in cui si nasce ci avvolgono con “naturalezza”. Per questo motivo, il racconto della migrazione non è semplicemente una rappresentazione di chi si muove, ma è allo stesso tempo un affresco delle società e dei territori che dalla migrazione sono interessati.